Lettera di Don Oreste Benzi
Ndola, 8 Febbraio 2005
Cari amici sostenitori,
vi scrivo dallo Zambia, dove la Comunità Papa Giovanni XXIII ha mosso i primi passi nel mondo missionario nel 1983.
E’ nel lontano 1981 che avevamo chiesto alla dottoressa Marilena Pesaresi se c’era bisogno di una nuova presenza in mezzo ai lebbrosi. Ella ci indicò il lebbrosario di Mutoko, in Zimbabwe, dove non fu’possibile realizzare il progetto che ci era stato proposto; poco dopo il vescovo di Ndola, il compianto Denis De Jong, ci ha chiamati in Zambia dicendoci: “Anch’io voglio nella mia Diocesi le vostre case famiglia!”. Dopo tre anni di preparazione, il 25 maggio 1986, aprimmo la prima casa famiglia – Holy Family Home for Children – (Sacra Famiglia per Bambini) per accogliere i bambini che soffrivano di malnutrizione, di malattie, di stenti e guarivano non per il cibo o le medicine, ma perchè una mamma glia accoglieva nel cuore, li rigenerava nell’amore ed esprimeva quest’amore anche dando cibo e medicine.
Contemporaneamente Betta e Gibo, anche loro di Rimini, aprirono un asilo molto particolare nella Missione rurale di Mishikishi, a cinquanta chilometri da Ndola.
I bambini che frequentavano l’asilo erano tutti molto poveri e arrivavano anche da villaggi anche molto lontani. Gli scopi dell’asilo erano di dare loro un’educazione e anche il cibo necessario per superare la malnutrizione di cui molti soffrivano. I sessanta bambini dell’asilo erano un incanto di gioia, sia perché la gioia è una caratteristica peculiare dei bambini africani, ma anche per l’amore che ricevevano congiuntamente all’istruzione e al cibo.
in questi ultimi anni il numero di orfani di genitori morti per HIV è aumentato in modo esponenziale e sono quindi aumentate le problematiche legati agli orfani: i bambini non ricevano un’alimentazione adeguata, non possono permettersi di andare a scuola, aumenta anche il numero dei ragazzi di strada.
La Comunità ha cercato di far fronte a questo problema con un’intuizione importante: “Bisogna aiutare la famiglia degli orfani perché possa accoglierli!”. Nella cultura africana è viva la formula della “extended family”, la famiglia estesa in cui il parente più prossimo si prende cura dell’orfano.
L’anima di quest’intuizione è la stessa Betta che si è fatta promotrice dell’asilo in Mishikishi e che ha iniziato il progetto Rainbow nel 1998.
Rainbow vuole essere sopratutto un idea, si cerca di lavorare insieme agli africani per trovare una soluzione ai problemi di quei bambini che hanno perso un genitore o anche tutti e due, ai bambini malnutriti e ai bambini di strada. Occorre aiutare gli africani ad essere essi stessi soggetti attivi, sensibili, responsabili del loro riscatto.
Ho visto i centri nutrizionali dove i bambini si recano una volta alla settimana per mangiare insieme e ritirare il cibo da portare a casa; le strutture dei ragazzi di strada dove ricevono cibo, vestiti.
Ma la gioia di questi bambini (e di chi si prende cura di loro), è dovuta al fatto che c’è qualcuno che si interessa a loro, che ha a cuore i loro problemi.
Grazie al concetto della restituzione è nata l’idea del microcredito: si dà alla famiglia la possibilità di iniziare un’attività che dia le risorse economiche sufficienti a sostenere gli orfani.
Il grande missionario Mons.Comboni aveva aperto profeticamente una nuova via: salvare l’Africa con l’Africa. E’ la stessa strada che seguiamo noi nel nostro piccolo.
Tutto ciò che viene fatto per questi bambini non sarebbe possibile senza l’aiuto che viene da ciascuno di noi.
Tutti gli aiuti che riceviamo, dice Betta, sono indispensabili e segnano ogni giorno la linea tra la vita e la morte per tanti bambini. Ed io sono d’accordo!
Aiutare questi bambini vuol dire porre un piccolo rimedio alle ingiustizie del mondo e costruire un piccolo pezzo del Regno di Dio sulla terra.
Che il Signore vi benedica
Don Oreste Benzi