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La testimonianza di Emanuela dallo Zambia

https://www.youtube.com/watch?v=Q42zHnESvPo

Fiumicino, Roma. Sono circa le 18 del 22 Agosto. Sono in attesa del volo che mi riporterà a casa, in Sicilia.
Davanti al gate, una bambina di circa tre anni gioca. Tocca il pavimento con le sue piccole manine e poi pensa bene di metterle in bocca. La madre le urla:- Eva, no!- E le corre incontro con l’amuchina in mano, pronta a sterminare tutti i germi che la sua Eva ha deciso di ingurgitare.

“Dio mio” penso io, “che esagerazione!”. Poi mi fermo un attimo a pensare e realizzo che fino a tre settimane prima quella non sarebbe stata la mia reazione. Tre settimane prima lo stupore aveva accompagnato il mio ingresso in Zambia.

E dire che i miei studi mi avevano preparato all’entrata nel continente nero. Eppure nessun libro ti prepara allo spettacolo a cui assisterai.

Mi è stato chiesto di scrivere una testimonianza della mia esperienza, di raccontare ciò che ho fatto, che ho visto e sentito. Non credo di esserne capace, dal momento che, per quanto utili, le parole non potranno mai dire abbastanza su colori, odori, suoni, sensazione ed emozioni che una simile esperienza ha suscitato in me.
L’unica cosa che mi sento di dire la dico partendo dal mio incontro con Eva al mio rientro.
 
La mia scelta di parlare di una bambina bianca per raccontare dell’Africa può sembrare inappropriata; eppure guardare Eva, conduce il mio pensiero verso Debòrah. Debòrah ha 4 anni e puzza quasi perennemente di pipì. Ma lei ride…sempre. Penso ad Eva e a Debòrah e non posso fare altro che chiedermi: perché le coordinate geografiche del luogo esatto in cui sei nato possono influire così tanto sui tuoi diritti? Perché le aspirazioni di Eva e Debòrah non potranno mai essere le stesse? E

 soprattutto mi chiedo: perché, nonostante questo, Debòrah mi sembra la bambina più felice sulla faccia della terra, mentre Eva mi sembra la più “sfigata”?

Queste e altre domande affollano la mia testa appena metto piede in terra italiana. Domande che probabilmente non avranno mai una risposta. Domande nate durante il nostro workshop con i ragazzi della scuola, in giro per il compound a distribuire volantini con Mwale o giocando con le pesti che abitano al centro.
In tutto ciò, l’unica certezza che mi sono portata dietro è che ciò che ho ricevuto dai bambini e dalle persone che ho incontrato è molto più grande di ciò che sono riuscita a dare. Probabilmente molti dei ragazzini che ho incontrato non ricordano già il mio nome. Ma, nonostante tutto, il desiderio di tornare in Africa è fortissimo. Lo chiamano “mal d’Africa”. Se dovessi definirlo direi che consiste nel fatto che il tuo viaggio non finisce mai, anzi sembra iniziare al rientro, quando realizzi che, nonostante la tua vita e quella delle persone che hai incontrato procederà come sempre, tu non puoi rassegnarti all’idea che la tua esperienza si chiuda lì. E questo da una gran carica. Per il resto, l’Africa non si può raccontare. Si può solo scegliere di viverla.
Concludo con un augurio: un giorno, durante il workshop, Arufosa, un ragazzo di 16 anni che frequenta la Shalom School, ha chiesto ad una mia compagna di viaggio di tradurre questa frase:
«I’m big enough to complete my education (Sono abbastanza grande per completare la mia istruzione)».
Con l’augurio che ciò possa realizzarsi per Arufosa e per tutti i bambini dello Shalom Community Center, ringrazio L’Africa Chiama per avermi permesso di vivere questa fantastica esperienza.
Emanuela Greco, Zambia – Agosto 2012

Nb: un’esperienza che consiglio vivamente a chiunque abbia a cuore certi temi e che spero di poter ripetere al più presto! Buon pomeriggio à tout le monde!

 

https://www.youtube.com/watch?list=PLD90375963AB1ACF8&v=Qe2xp0sp4lE

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