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Testimonianza di Titti volontaria in Kenya

Questa non e’ una testimonianza. Ma una matassa che si dipana, un gomitolo di emozioni che si srotola a partire da una domanda “sei arrivata a casa?”

No, non sono tornata, credo di essere rimasta li, seduta in un angolo di una baracca ad ascoltare storie, ad osservare volti che parlano di un mondo che non immaginavo, cammino lungo strade che di una strada non hanno nulla, eppure ti conducono, ti guidano…e’ la Terra che sembra muovere i tuoi passi come ad invitarti a scoprire, a sapere. Percorsi tratteggiati di immondizia e calpestati da scarpe rotte e tanti, troppi piedi nudi.

E tutto intorno riecheggiano disperazione e allegria, in un connubio impensabile, eppure possibile. Me lo ha insegnato l’Africa, nelle sue mille contraddizioni che si annullano in un’unica, sconcertante verità, l’essere umano nella sua essenza, nella sua primordialita’. L’uomo che non avevo mai visto, perché in questo mondo qui, dove le mie gambe hanno ricondotto il mio corpo, ma non la mia mente, non il mio cuore, io l’essere umano non lo avevo mai incontrato. Troppe maschere ci hanno stratificato l’anima, in nome di un’apparenza da salvare a tutti i costi, fino a farci dimenticare chi siamo, da dove veniamo, cosa cerchiamo.

E allora me ne resto sospesa li, in una di quelle tante lacrime che rimangono imprigionate tra le ciglia, attaccate alla pelle, che nascono da occhi immensi e restano appiccicate addosso, a ricamare sui volti, insieme a perle di sudore, un dolore che ti imbarazza per la sua cruda dignità.

Non sono ancora tornata e non so se voglio, se posso! Faticherò a scrollarmi dall’anima il ricordo di un cielo che sembra avvolgerti, cosi vicino da poterlo toccare, di stelle che sembrano restare li in attesa di essere afferrate, quasi la natura avesse scelto di guardare a questo mondo, a questa gente da una posizione ravvicinata, quasi a volerli abbracciare tutti, nella loro miseria, nella loro precarietà.

Ora sono in una sorta di limbo, in sospensione tra due mondi. C’e una casetta li a Soweto, dove ho vissuto giorni e dormito notti senza tempo, dove ogni risveglio aveva un perché. Mi vedo ancora li seduta. La testa piena di domande. Senza risposta.

Il cuore traboccante di emozioni che non trovano vie di sbocco, perché nel mio tempo, quello scadenzato dal ticchettio di un orologio e dalle pagine di tanti calendari, ho smarrito i canali e i modi per veicolarle, per tirarle fuori.

L’Africa mi tira per un braccio, l’altro lo ha afferrato la mia vita di sempre, scaraventandomi qui da dove scrivo, dove la pelle bianca bhe mi circonda e’ uguale alla mia.

E mi chiedo cosa rappresenti questo colore che mi porto addosso da quando sono nata.

Se ogni giorno fatichiamo a mascherarci, ad essere come gli altri ci vogliono, quanto siamo veramente orgogliosi di essere dei “muzungu”. Io so che sotto stracci e strati di sporcizia la pelle nera delle persone che ho incontrato mi e’ parsa vera, reale come mai niente al mondo.

So che presto la mia vita mi riacciufferà, strappandomi a quelle manine che mi afferravano le braccia, a quei sorrisi sinceri che mi riempivano il cuore di gioia, a quegli occhi riconoscenti del nulla che gli ho dato, a quegli odori acri e pungenti a cui mi sono abituata da subito, ai miei vestiti sporchi e spiegazzati, all’ ansia di fare il più possibile, di rimediare a tante situazioni, di cambiare qualcosa, di riuscire, nella consapevolezza terribile della propria impotenza…e tornare qui sarà un dolore, che poi diventerà normale, come tutto.

Ma ciò che ho vissuto in quei pochi giorni trascorsi veloci potrà essere ricondotto alla normalità? Potrò relegarlo nel baule dei miei vissuti ed etichettarlo come esperienza di vita, come UNO dei tanti ricordi che sfumano col tempo? La risposta e’ no.

Quei giorni trascorsi troppo velocemente mi hanno insegnato cose che non ho appreso in una vita intera. Oggi so che il dolore, che tutti noi conosciamo come qualcosa che ci affligge interiormente, può avere una consistenza, quella dei ventri gonfi di centinaia di bambini denutriti, può avere un odore, quello del chai che ti inonda le narici non appena varchi l’uscio di una baracca e che si mescola a quello delle fogne e ti rimane addosso e dentro a ricordarti ciò che hai visto, come un invito a non dimenticare. Il dolore può avere un peso, quello dei bambini che ho sollevato tra le braccia, che ho stretto al mio petto e dei quali cercavo di immaginare un futuro che non intravedevo. E può avere un colore, quello rosso della terra che, alla stregua di tante madri che ho conosciuto, non ha cibo per nutrire i figli che ha partorito, ne’ più lacrime da versare per dissetarli.

E poi, a fare da contrappeso a tutto questo, c’e’ la gioia che scoppia all’ improvviso per un nonnulla.

Un’allegria che ti contagia per la semplicità delle cose da cui scaturisce. L’Africa ti insegna il piacere per le piccole cose, che per quanto minuscole, insignificanti, lì sono in grado di strappare ad un bambino e ad un adulto il sorriso più radioso in cui ti sia mai imbattuto.

E di fronte a tanta disarmante semplicità ti chiedi come sia possibile tutto questo?

Perché noi non ne siamo più capaci? E ti verrebbe da supplicare quella gente che ti tende le mani in cerca di aiuto di insegnarti come si fa. Quanto costa il cibo per sfamarvi tutti?

Chiederesti e quanto costa un’emozione?

L’Africa ti insegna la generosità. Ti illumina sul concetto di condivisione: ho visto bambini dividersi una caramella, un biscotto, donne offrirti il chai, l’unica cosa che avevano, togliendolo a sé per dimostrarti la gioia di averti in visita, di ospitarti nella propria casa e baracche stracolme di persone, perché li, in quegli spazi angusti dove non immagineresti possano vivere in tanti, ci sarà sempre posto per accogliere qualcun altro… e ci sarà posto anche per te, muzungu!
L’Africa e’ forza, coraggio, fatica sotto corpi chini a spaccare pietre, piegati dal peso dei sacchi o dei propri figli avvinghiati addosso, legati.

Un Nuovo ventre materno che si trasferisce sulle schiene, lungo sentieri erti e pietrosi, con lo sguardo proteso verso un domani che non sarà diverso da oggi, ne’ da ieri.

No, non sono ritornata e non voglio ne’ posso. Ne’ voglio, ne’ posso dimenticare.

Il viaggio intrapreso circa un mese fa era, a mia insaputa, di sola andata.

Oggi sono qui che scrivo, da casa mia. Mente e cuore sono rimasti li, a dettarmi le parole da lontano, arrivano leggere e le immagino trasportate dal vento e dal suono dei bonghi che sembrano evocare il battito di migliaia di cuori impegnati in un’unica danza e vedo uomini, ne’ bianchi ne’ neri, semplicemente uomini che, spogliati della loro pelle e di ogni ipocrisia, ballano sotto lo stesso cielo, a piedi nudi sulla stessa terra rossa, come il tramonto di tutte le ingiustizie.

Karibu Africa. Benvenuta nella mia vita.

A Gery, Prudence, Maggie, Ruth, Teddy, Robert, Bernard, Simon, Ellen, Edith, Gabriel, Uanboi, Veronica, Sara, Jennifer, Ciro’, Nancy, David, Anthony, Simon, Jules, Peter, Munao, Moangi, Mombi, Mamma Africa e a tutti quelli di cui non ricordo il nome, ma che mi resteranno nel cuore.

A Suor Ester, Suor Elizabeth, Suor Paola che hanno fatto della Vendramini School un’oasi di accoglienza e di sincera umanità.
A Gianluca e Federica, persone splendide e coraggiose.

All’Africa Chiama, per il suo straordinario lavoro e per avermi dato la possibilità di conoscere un mondo.

Grazie!!!

Concetta Carannante (Titti) Soweto – Kenya – Agosto 2012


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