Ambiguità e contraddizioni di un anno di servizio civile all’estero.
Articolo di Adele Manassero dallo Zambia
Vivere il servizio civile all’estero è sperimentare per un anno le diseguaglianze sociali presenti nei Paesi del Sud del mondo.
È un’esperienza “straniante” che ti porta non solo lontano geograficamente, ma lontano dalle abitudini e dagli standard di vita dati per scontato nelle nostre case italiane. Allo stesso tempo, vivere il servizio civile all’estero è incarnare ambiguità e contraddizioni. È infatti camminare e lavorare durante il giorno con persone che la mattina devono andare a prendere l’acqua per la loro quotidianità usando taniche e fusti in equilibrio sulla testa, per poi tornare a casa la sera ed aprire comodamente il rubinetto per avere acqua corrente. È anche sapere di potersi permettere un nuovo paio di pantaloni in qualsiasi momento, di mangiare fuori ogni tanto e concedersi una pizza per scacciare la nostalgia del cibo italiano, mentre colleghi e lavoratori locali hanno uno stipendio non commisurato al costo della vita di una capitale e faticano a pagare le tasse scolastiche dei figli.
Fare il servizio civile all’estero permette inoltre di viaggiare nella nazione ospite e spesso di visitare più luoghi di quelli conosciuti dai propri colleghi. Queste sono solo alcune delle disuguaglianze che ogni giorno ci ricordano e ricordano ai locali che il luogo di nascita non è solo una questione di geografia, ma soprattutto di possibilità socio-economiche.
Arrivata al decimo mese di servizio civile con L’Africa Chiama ONLUS-ONG al Centro Shalom, situato nel compound di Kanyama, una zona periferica e altamente degradata della capitale Lusaka, è difficile mettere insieme queste contraddizioni, questi frammenti di privilegio che seguono noi occidentali ovunque siamo nel mondo insieme ai frammenti di vita vissuta durante l’anno di servizio civile. La schizofrenia, la frammentazione dell’esperienza sono di solito seguiti da un profondo senso di colpa e di ingiustizia che invitano a mettere in discussione il senso dell’esperienza stessa e il nostro ruolo.
È però proprio abitare queste diseguaglianze che stimola a comprenderle e a scavare più in profondità.
La domanda che sorge spontanea è: lo stare, il condividere la quotidianità con le persone locali è abbastanza? La presa di coscienza di vivere nell’ambiguità, di essere sul confine che separa privilegio e sopravvivenza è sufficiente? La risposta che ho cercato di elaborare per me stessa è: sicuramente no. La nostra responsabilità sta nell’andare oltre la mera presa di coscienza personale e aiutare a ragionare tutti coloro che non hanno la possibilità o la volontà di abitare le disuguaglianze. Il valore della testimonianza, degli articoli, delle foto, dello stesso ritornare in Italia a fine servizio sta proprio in questo: raccontare, essere testimoni, fare tesoro dell’esperienza, dell’ambiguità per provare a ridurre queste disuguaglianze a partire dai nostri quartieri, scuole, luoghi di lavoro e case. Perché “il sole splende per tutti”, ma per alcuni è certamente più caldo, quindi sta a noi condividere il privilegio dell’esperienza e sta a noi costruire gli strumenti per diffondere lo stesso calore in modo più egualitario.
Adele Manassero, volontaria in servizio civile a Kanyama (Zambia)