Articolo di Martina, volontaria in servizio civile in Tanzania
Abdallah è un bambino disabile di sei anni; a vederlo ne dimostra due ma non è in grado di camminare, parlare, comunicare, muoversi e molto altro. Abita con la bibi, ovvero la nonna, nel villaggio di Nyabula, vicino alla città di Iringa. In quello stesso villaggio ad Agosto Call Africa Tanzania ha aperto l’ottavo focal point, ovvero un piccolo centro per la riabilitazione fisica e cognitiva. Purtroppo non tutti i bambini disabili della zona possono raggiungere facilmente il centro per diversi motivi, chi è troppo grande per essere trasportato sulla schiena per molta strada, chi ha il genitore che non può assentarsi dal lavoro e chi, come Abdallah vive con la nonna che non ha più la forza necessaria per caricarselo sulla schiena.
Per tutti questi bimbi sono rimaste attive le home visits così da non perderli e offrire anche a loro un servizio. Vedo Abdallah per la prima volta a settembre in quanto per coincidenze di giorni, tutte le altre volte che ho assistito alle home visits era il turno di altri bambini. Appena lo vedo penso dentro di me ad un bimbo molto piccolo ma quando saluto un altro bambino li vicino che mi spiega essere il fratellino minore di Abdallah capisco di essermi sbagliata. Abdallah ha sei anni e io rimango senza fiato nel sorridergli, è così piccolo. Timidamente ricambia il sorriso e socchiude piano piano gli occhi. Siamo in un villaggio nel cuore della Tanzania, non c’è elettricità e nemmeno acqua corrente.
Le case sono fatte di fango e paglia e Abdallah è coricato su una stuoia all’ombra della casa. È impolverato, sporco e ha molte mosche che si posano sulla sua faccia. È la prima volta che vengo a casa sua quindi sto in disparte ad osservare mentre il fisioterapista e l’operatrice iniziano gli esercizi. Osservo lui e gli sorrido… ma osservo anche quello che c’è tutto intorno a noi. Mamme galline con pulcini che scavano nella sabbia per cercare cibo, cani che stancamente ci passano vicino annusando per terra nella speranza di trovare qualcosa da mangiare, il mais che ormai è stato colto ma le piante vuote sono ancora tutte li, un po’ cadute, un po’ strappate e un po’ bruciate, vestiti appesi ai rami ad asciugare, pentole mezze vuote insieme alle galline, pannocchie di mais “spannocchiate” accatastate in un angolo e semi di girasole messi al sole ad essiccare dove le galline trovano facilmente da mangiare.
Insieme a tutto questo ci sono diversi bambini, impolverati, che giocano con tappini di plastica o con legnetti trovati poco più in la. Chiedo alla Bibi chi sono tutti questi bimbi, se sono venuti li per giocare con Abdallah o se abitano nelle vicinanze. La nonna mi sorride e mi spiega che sono tutti bambini che vivono con lei, Abdallah e il fratello vivono con lei in quanto il padre è scappato e la madre, figlia della nonna, non si interessa a loro avendo un altro bambino piccolo da allattare; c’è un bimbo più grande che avrà 10 anni che l’aiuta con le galline e con i campi da coltivare, dei genitori non è dato sapere. Un bimbo che avrà quattro e anni e una bimba di un anno e quattro mesi. La guardo bene ed è molto piccola per la sua età, non cammina, non ha nessuna reazione agli stimoli, non sorride, ha la pancia molto gonfia e la testa sproporzionata rispetto al corpo.
Provo a sorriderle e a farla ridere ma nulla la sposta dalla sua immobilità, mi guarda come se mi trapassasse ed è immobile nella polvere. Con l’aiuto dell’operatrice spiego alla nonna che questa bimba avrebbe bisogno di seguire il nostro centro di malnutrizione Kipepeo, che è molto piccola rispetto al peso che dovrebbe avere e che potrebbe aiutarla molto farsi seguire da una nutrizionista. La nonna chiede chi potrebbe portarla fino al nostro centro e ci spiega che lei fa quello che può per tutti questi bambini. La loro mamma è stata definita “matta” e quindi non presente mentre il papà c’è… ma non si occupa di loro e non sapeva dove fosse in quel momento.
La Bibi mi ha spiegato che lei li accoglie tutti e fa quello che riesce per dar loro qualcosa da mangiare, lavare i vestiti e quel po’ di contatto umano di cui tutti hanno bisogno. Mi viene molto difficile riuscire a fare un paragone con la mia vita occidentale dove le parole trauma, abbandono, solitudine sono all’ordine del giorno nel mio lavoro. Dove si da estrema importanza ad un qualcosa che qui, in Africa, non è nemmeno pensabile o applicabile. È una vita troppo diversa dalla nostra che non mi sento né di giudicare né di condannare, è così. Le relazioni come le viviamo noi qui non sono contemplate e loro ridono dei nostri modi di fare, della nostra tutela nei confronti delle relazioni. Io faccio molta fatica a sorridere di tutta la sofferenza che ho visto in questi mesi e non so nemmeno se il termine sofferenza sia quello giusto; è sicuramente stata, però, la mia percezione.
La bimba verrà al nostro centro per una visita con la nutrizionista accompagnata da una vicina di casa mentre Abdallah ha riso con me tutto il pomeriggio mentre lo distraevo dal dolore delle protesi alle gambe e così come sono arrivata a casa loro, sono andata via.
Martina Furlan Volontaria in servizio civile in Tanzania (2017/2018)