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Da uno dei quartieri più poveri dello Zambia a Berlino!

Il racconto di Martina Baldus ex volontaria servizio civile a Kanyama

Andrew, il coach di judo del Centro Shalom de L’Africa Chiama a Lusaka (Zambia), una mattina dell’agosto  passato, a due mesi dal mio ritorno in Italia, mi chiama su WhatsApp. Non faccio in tempo a dire: “Hello” che… “Martina we’re coming to your country next year!”

Solo in un secondo momento, quando nomina “Germania” e “Special Games” capisco che si riferisce al mio continente, non al mio paese. Inizialmente non gli credo. Penso abbia sbagliato nome, nazione o che abbia voglia di scherzare. In fondo i ragazzi di cui mi parla -Crispine, Malama, Frank e Abigail- hanno iniziato judo solo da un anno, da quando l’attività è ripartita dopo il covid. Sono bravi, hanno imparato tanto, lui è un ottimo allenatore, ma sono scettica perché il suo entusiasmo spesso mi ha ingannata e il gap linguistico a volte mi ha fatto fraintendere. Poi apro un po’ la mente e il cuore, che scopro essersi richiusi già di qualche centimetro dopo il mio ritorno in Italia.

A Shalom le classi di judo esistono già da prima del covid e dopo uno stop forzato di due anni, sono riprese normalmente nel 2021. Sono aperte a tutti gli studenti della scuola: grandi e piccini, uomini e donne, studenti con e senza disabilità, che ovviamente condividono l’ora di allenamento, divisi solo per fasce di età.

La Zambia Judo Association, che manda il coach settimanalmente per il corso, non ha scopo di lucro e fornisce anche i kimono ai e alle partecipanti.

Passano i mesi ed Andrew mi aggiorna sugli allenamenti, sugli incontri con la Federazione e la Nazionale, mi fa salutare velocemente i ragazzi tutti sudati mentre si allenano nella stanza di fisioterapia con il kimono bianco.  Un giorno mi informa che ci sono state le prime gare e che, su quattro ragazzi, due di loro hanno passato il turno e strappato il pass per la finale a Berlino: sono un ragazzo e una ragazza, Frank e Abigail.

Quando domando perché nessuno dei ragazzi sordi o con altre disabilità fisiche sia stato selezionato, Andrew mi spiega che le Special Olympics sono i giochi dedicati alle persone con disabilità intellettive e sono quindi diverse dalle Paralimpiadi, nate per gli atleti con disabilità motoria. Andrew, entusiasta, aggiunge che si impegnerà ad allenare i ragazzi e le ragazze in vista delle prossime Paralimpiadi, che si terranno nel 2024!

Frank, poco più che ventenne, è alto e magro, estremamente gentile, ma con un carattere tosto e deciso.Ha un ritardo intellettivo medio, parla poco inglese, solo nyanja. Ha partecipato al programma Skills per l’avvicinamento al lavoro e ha una forte propensione al lavoro manuale: sa cucire, cucinare, faceva volontariato nella biblioteca di Shalom e ha partecipato al rinnovamento del muro della scuola, quello bianco dietro la scritta “Inclusion” per intenderci.

Abigail, invece, è una ragazza scherzosa e volenterosa. Suo papà lucida scarpe sulla Shalom Road e così come la mamma di Frank, è uno di quei genitori che ha accettato la disabilità della figlia e non ha mai pensato che meritasse di meno di altri.

In un contesto come Kanyama non è facile trovare genitori che abbiano superato l’idea che un figlio con disabilità sia una maledizione (o stregoneria) mandata sulla propria famiglia. Questi genitori sono un’ispirazione, sono una stella nel buio e nessuno li può scalfire.

Così Frank e Abigail hanno superato le selezioni all’OYDC, il complesso olimpico di Lusaka e si sono trovati su quell’aereo che li avrebbe portati non solo dall’altra parte del mondo, ma soprattutto fuori dal proprio paese per la prima volta!

Io già dalla prima chiamata di Andrew avevo deciso che sarei andata a vederli, ma il tutto si è fatto reale quando ho prenotato i biglietti aerei per Berlino ad Aprile.

Così i ragazzi si sono allenati e hanno partecipato alle varie riunioni di routine con la federazione, gli sponsor e il resto della nazionale dei vari sport ed io ricevevo foto di loro due vestiti con la tuta della nazionale, tra presidenti e altra gente in giacca e cravatta e ancora non mi sembrava vero.

Presto è arrivata l’ora di incontrarli. Loro sono arrivati qualche giorno prima e hanno iniziato ad ambientarsi tra le palestre, le vie della città e l’idea di essere in Europa a rappresentare il proprio paese.

Finalmente arriva mercoledì 21 giugno. 21 giugno, ironia della sorte, proprio il giorno in cui ho preso l’aereo per tornare in Italia esattamente un anno prima.  L’appuntamento è davanti all’albergo riservato agli atleti alle 15.30. Ovviamente non arrivano e Andrew ha il cellulare spento, quindi, come spesso è accaduto, aspetto fiduciosa sperando che entro due ore qualcuno si faccia vivo.

Dopo un’oretta vedo tre magliette verdi sbucare dall’angolo della strada. Tanti sorrisi, abbracci e “Muli Bwanji”. Tanta emozione nel vederli così fieri e sicuri di sé stessi. Camminano ad un metro da terra e Andrew, tra i sorrisini, li riporta giù con tenerezza.

Durante gli allenamenti e i pre-gara è tutto un “Focuskuikanzelu”, una sorta di “Concentrati!” con l’aggiunta di “Comportati con saggezza”. Una bella combinazione direi.

Il coach ha un obiettivo per loro: far si che si qualifichino per i giochi della gioventù di judo che si terranno a Londra a fine estate. Lui ci crede e mi ripete che hanno tutte le carte in regola per farcela.

Cosa serve? Classificarsi fra i primi due della propria categoria. Nelle Special Olympics, oltre la suddivisione maschi-femmine, c’è anche quella del grado di disabilità. “M” sta per “male” (maschi) e “F” per “female”. Compare poi un numero da 1 a 3 che rappresenta il livello di disabilità. Frank compete nella categoria M2 e Abigail F2.

Tra mille spostamenti di orari cerco di capire quando si terranno le gare, che sono direttamente finali, nonché un “tutti contro tutti” a girone unico diviso per categoria. Venerdì sarà il turno di Frank, mentre sabato di Abigail.

Mercoledì passiamo il pomeriggio insieme dopo l’allenamento. Li lascio presto perché hanno una routine di sonno e alimentazione da non spezzare.  Giovedì non ci vediamo. Andrew mi dice che dopo gli allenamenti andranno a vedere giocare gli avversari delle altre categorie per studiare e commentare le loro tattiche. E’ il giorno prima delle finali per Frank, è giorno di concentrazione e realizzazione. Abigail invece è serena, è tutto ancora surreale per lei, non sembra troppo conscia delle emozioni che vivrà di lì a due giorni.

Venerdì arriva presto. Ci troviamo fuori dalla palestra delle finali, Andrew ci scorta nei posti riservati alla nazionale e ci troviamo accerchiati da tutti i ragazzi e coach della squadra zambiana. Oltre al judo, lo Zambia partecipa per  l’atletica e le bocce. Saranno una ventina tra atleti e accompagnatori.

Siamo una piccola macchia verde fra gli spalti. C’è fermento, si respira un’aria di speranza e positività. Io ho un chitenge (stoffa) con la bandiera dello Zambia, il mio regalo di “arrivederci” da parte delle donne della cooperativa Mtendere di Shalom. Lo riapro per la prima volta, lo srotolo e me lo metto sulle gambe pronta per fare il tifo per Frank.

Dopo l’ingresso dei giudici, alle due e mezza lo speaker annuncia l’ingresso dei ragazzi che in fila indiana (più o meno), col loro kimono, a piedi scalzi, avanzano verso il tappeto rosso e giallo. Qualcuno sbaglia strada, qualcuno si blocca a salutare e ferma la fila, qualcun’altro non smette di sorridere e si distrae guardando tra il pubblico.

Partono i match sui due tappeti. Frank entra, seguito da Andrew e dal suo avversario col coach.

Sembra frastornato, le prende dall’avversario, più concentrato e determinato di lui purtroppo. L’avversario mette a segno dopo pochi secondi l’Ippon, la mossa che da sola determina la vittoria immediata. Frank viene ribaltato e quando si rialza il giudice gli dice di mettersi a bordo campo per il saluto di fine match.

Neanche il tempo di capire dov’era.

Dopo altri incontri è di nuovo il suo turno. Andrew l’ha caricato, questa volta non ha intenzione di farsi cogliere impreparato. Niente però, l’avversario è molto agguerrito e si ripete la scena del match precedente. Noi non smettiamo di fare il tifo, farci sentire, provare a farlo sentire più vicino a casa.

Il match dopo lo vince, ha una forza diversa, è stabile sui suoi piedi, nessuno sgambetto lo destabilizza e ogni volta che finisce a terra prontamente toglie le spalle dal tappeto per non far partire il count-down che porta all’assegnazione del punto all’avversario.

Quarto ed ultimo match: un’altra vittoria, Frank finalmente sorride, abbraccia Andrew arrivato a bordo tappeto, e sparisce dietro gli spalti.

In questo modo si è aggiudicato un bel terzo posto sul podio, anche se il sogno dei giochi a Londra è svanito.

Alla premiazione, spostata al chiuso per la pioggia battente, ci sono tutti i partecipanti e Frank riceve la medaglia. Come spesso accade quando è emozionato, si dimentica di sorridere. Su quel gradino ci sono lui, la medaglia che pesa sul suo collo e tutta l’emozione di chi non ci crede.

Andrew mi aiuta urlando “Frank, smile” (sorridi) prima che scatti le foto di rito.

La star scende e torna tra i suoi compagni. Fanno mille foto, si abbracciano. Abigail è allegra e scherza nelle foto. Frank è fiero, è felice, ma è sempre Frank…Franki, Frankino, a seconda del momento.

Un po’ per volta si torna tutti agli alberghi. Domani è un altro grande giorno, domani tocca ad Abigail.

Alla stessa ora, ma un po’ in ritardo, ci risediamo tra gli spalti. Stessi posti, metti caso che cambiare porti sfortuna.  Come con Frank, assistiamo a diversi match prima che arrivi il suo turno.

E’ affascinante vedere come non ci siano forzature, tutti siano accolti e invogliati ad essere sé stessi.

Dal di fuori è un’olimpiade a tutti gli effetti: la location, i tabelloni, l’ingresso dei giudici e degli atleti annunciati dallo speaker. Non ci sono strappi alle regole, se non abbracci nei momenti in cui sono più necessari e più efficaci di un “Focus” (concentrati).

Una ragazza piange per l’ansia dall’inizio alla fine del match. E’ l’arbitro stesso a darle una pacca sulla spalla, dirle che va tutto bene. Un’altra è così entusiasta che balla ad ogni stacco e il match deve fermarsi qualche secondo in più ogni volta solo per lei…E va bene così.

Il pubblico è diviso per squadre, ma è unito dal bene comune di credere in un mondo più accogliente, più giusto, quasi utopico, quello del clima che si respira durante queste gare e che sappiamo tutti che non ritroveremo tornati alla vita di tutti i giorni. Per ora però ce la godiamo.

Arriva il turno di Abigail. “Bow”, “Inchinatevi” dice l’arbitro invitandole al saluto iniziale. Abigail ha paura, non so dove abbia messo la sua grinta, non la trova. L’avversaria è irruenta, piccola e veloce, cerca di atterrarla e lei semplicemente si mette in difesa, punta i piedi forte per terra e cerca almeno di non cadere ed essere messa in scacco. Andrew, dietro alla postazione dei coach, si dimena e urla per farla reagire. Chissà se lei lo sente. L’avversaria segna un punto minore, ma a furia di perdere tempo a difendersi e non attaccare, quell’unico punticino segna per Abigail la perdita del match per fine tempo massimo. Esce dal campo dimenticandosi il saluto di fine. Torna poi indietro invitata dall’arbitro.

Si susseguono gli altri incontri prima che torni sul tappeto. Chiamata dallo speaker torna in campo. Questa volta, nonostante la sua avversaria sia decisamente agguerrita, cerca di attaccare. Probabilmente Andrew le avrà detto di non perdersi d’animo. Dopo pochi secondi però qualcosa non va: l’arbitro chiama Andrew in campo perché Abigail non vuole continuare il match, ma non riesce ad esprimersi bene in inglese. Pare che si sia fatta male, si tiene il gomito. Invitano prima i medici ad entrare, poi decidono che è il caso che abbandoni l’incontro e perde a tavolino. Il suo sogno finisce qui, con un ultimo posto.

Dopo tutti i controlli in ospedale risulta che non ci siano danni ad ossa o muscoli, è stata solo una botta e un po’ d’ansia. Questo ci dice Andrew al telefono una volta che siamo tornati a casa dopo aver salutato Frank e il resto della nazionale.

Torniamo con un po’ d’amaro in bocca, avremmo voluto veder trionfare anche lei, vederla fiera sul podio ad incoronare questa esperienza con un bel premio. Non è andata così. Nello sport soprattutto, spesso le cose vanno diversamente da come ce le aspettiamo.

Che si fa quindi? Si pensa che almeno Frank e Abigail, tra tutti i ragazzi con disabilità di Kanyama, abbiano avuto una voce al di fuori del loro piccolo e abbiano potuto guardare al di là dei limiti imposti dalla società e dal luogo in cui vivono.

Forse si riqualificheranno per una nuova Special Olympics, forse no, forse saranno i capofila per altri studenti di Shalom e forse l’attenzione sullo Zambia crescerà e gli sponsor saranno più invogliati a dare a sempre più ragazzi questa opportunità.

Forse saranno di ispirazione per altri ragazzi e verranno invitati a raccontare quello che hanno vissuto, perché finchè uno le cose non le vive non pensa possano capitare proprio a lui. Sono sicura, in ogni caso, che non lo dimenticheranno facilmente.

Articolo di Martina Baldus ex volontaria in servizio civile universale in Zambia

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