Articolo di Anita, volontaria a Nairobi (Kenya)
Sorridono sempre anche se non hanno niente.
Quante volte l’abbiamo sentita questa frase? Vi svelo un segreto: non è vera! Sorridono? Sì, ma non sempre, piangono anche, anzi, urlano. Non hanno niente? Dipende, qualcuno sì, qualcuno no.
Bisognerebbe smetterla con questa narrazione che rende i bambini, neri, come poverini che non hanno niente eppure sorridono sempre, qualcuno sorride perché tu sei diverso e loro sono incuriositi, quindi si avvicinano, ti danno la manina oppure ti parlano in inglese, sperando che tu capisca e possa rispondere loro, si emozionano se rispondi sì, ma solo perché sei una novità, il diverso, non perché hai fatto chissà cosa. Tutti? Assolutamente no.
C’è qualcun’altro che fissa, e non cambia espressione neanche se ti avvicini con la caramella. Chi è più piccolo piange, perché non ha mai visto un uomo bianco e sì, l’uomo bianco può fare paura.
Ci sono vari esempi che vorrei raccontare di ciò che ho vissuto io: N., figlia di una delle coordinatrici del centro di Call Africa Kenya ha passato il primo mese a fissarmi da lontano, non mi si avvicinava. Pole pole, con qualche parola di swahili detta da me, si è avvicinata, senza mai parlarmi; ha iniziato ad osservarmi, avvicinandosi e allontanandosi, quando e come voleva lei.
Uscendo dal centro la salutavo, non mi ha mai salutato, neanche spronata dalla mamma. Fino a che un giorno, mi sono avvicinata e lei non si è mossa, l’ho salutata e non mi ha risposto, però almeno ha sorriso, da lì abbiamo iniziato a giocare insieme. Ora mi saluta quando vuole e qualche volta se apro le braccia mi corre incontro e mi abbraccia, quando decide lei, giustamente.
Poi c’è T. che viene al centro e non può andare a scuola; mi osserva, non si avvicina e lo saluto, non mollo, ogni giorno lo saluto in swahili per fargli capire che se vuole possiamo parlare, eppure niente.
Mi avvicino anche a lui piano e inizio a giocarci, lascia che io giochi con lui, non piange ma mi osserva con viso serio. Gioca e rigioca, ora se apro le braccia ci crolla dentro, troppo piccolo per fare l’adulto, eppure si arrangia. Le mie braccia fungono da culla per quando ha voglia di fare il bambino, ci sono giorni in cui si addormenta e io lo lascio dormire, cullandolo. Non mi parla, se lo saluto mi guarda, se ci gioco sorride. Sa che tra le mie braccia può stare, può fare il bambino quando una parte di infanzia non gli è concessa.
Poi ci sono G., J., A., e molti altri che se non hanno voglia, con te non giocano, perché sono bambini ed è giusto così. Alcuni di loro vivono a Soweto, nello slum di fronte il nostro centro, probabilmente hanno visto o vivono in situazioni che non ci immaginiamo, eppure vengono a scuola da noi e fanno i bambini, ridono e piangono, litigano e non vogliono condividere i giochi, disegnano e imparano.
Camminando per strada per andare a fare la spesa qualcuno ti si avvicina e ti abbraccia, mi fa piacere? Non so, sto iniziando a riflettere che oltre al piacere di abbracciarli e rivederli, se fossi in Italia mi chiederei dove siano i genitori. Qui bisogna abbracciarli tutti, solo per il fatto di essere neri?
Anita Tozzi, operatrice volontaria in Servizio Civile Universale a Nairobi (Kenya)
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