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L’Africa che (mi) chiama.

La mia è un’Africa forse insolita, lontana dai luoghi comuni ai quali la gente è abituata e, forse, tristemente affezionata. Come diceva Thomas Sankarà, presidente burkinabè e personaggio memorabile del panafricanismo e anti-imperialismo, la mia è quell’Africa che lui stesso invitata ed incoraggiava ad “inventare l’avvenire”. L’ Africa che, nonostante le rindondanti immagini di guerre, carestie, povertà, è il cuore pulsante del mondo, laboriosa e frenetica, piena di colori, voci e speranze mai perdute.  

Partire per lo Zambia con l’Africa Chiama per me significava molto.

Non era tanto l’emozione per un viaggio a lungo atteso, in fondo non era la prima volta in Africa, già mi immaginavo la tempesta emotiva che mi avrebbe travolta.

Era piuttosto la voglia di mettersi alla prova in una sfida che si è immaginata per tanto tempo, per la quale si è studiato, faticato, sperato. Scegliere di lavorare nella Cooperazione Internazionale non è una scelta di coraggio è una scelta di astuto e tacito egoismo perché, in cuor tuo, sai bene che a guadagnarci a livello emozionale ed umano, sei tu, solo tu.  Fare un lavoro umanamente appagante rende felici, non c’è niente da fare.  E sei felice tu, hai lo straordinario potere di rendere felici gli altri.

 

Decido quindi di partire per lo Zambia per una ricerca universitaria su un progetto di microcredito promosso dalla ONG a Kanyama, nel vasto compound di Lusaka. Tematica alla quale mi interesso da qualche anno come good practice di intervento nei paesi in via di sviluppo (termine che non amo ma che la deformazione professionale mi  costringe ad usare).  L’idea era  concentrarmi  su quel progetto specifico e aiutare gli operatori locali e il personale espatriato nella fase di valutazione finale. Capire, osservare, imparare e aiutare. E sopra ogni cosa, co-operare!

Parto il 23 novembre da Milano carica di emozioni e aspettative e, con un volo British Ariways, in dieci ore io e Umberto, mio collega, atterriamo a Lusaka. Entusiasmo incontenibile, almeno il mio!

Francesco ci aspetta puntuale e curioso all’uscita dell’aeroporto, vedo il suo collo che si allunga per inquadrarci tra la folla. E con lui, nostro primo riferimento in Zambia, comincia la nostra avventura africana.

La nostra casetta è a poche centinaia di metri da quella dei cooperanti  dell’associazione, una sistemazione decisamente spartana e, come piaceva sottolineare a me, divertente. “L’arte di arrangiarsi”, ecco, era esattamente così.  Ci  sistemiamo in fretta e furia e, dimenticando le ore di viaggio più o meno insonni,  partiamo alla volta dello Shalom Centre di Kanyama, progetto e sede operativa de l’Africa Chiama a Lusaka.

Visitiamo la clinica, di recente inaugurata, la community school e la struttura della high school in costruzione, gli uffici e le cucine.  Non posso che pensare a quanto sia tangibile lo sforzo e la missione sostenuta da L’Africa Chiama in quel posto. Vedo i bambini che beneficiano dei servizi offerti, gli insegnanti locali che lavorano, le infermiere e i medici della clinica. E poi vedo loro, Francesco, Chiara e Michela che, seduti dietro le loro scrivanie, gestiscono e coordinano tutto. Un bel carico di lavoro per loro, così giovani e sognatori. Pensieri astratti che dominano la mia mente finché, finalmente, non comincia la nostra prima settimana di lavoro. E allora sì, si fa sul serio!

Io e Umberto facciamo dal primo giorno una scelta che si rivelerà assai saggia, andare e tornare al lavoro a piedi.  In realtà  fa tutto parte di una decisione tacita ma inconsciamente condivisa da entrambi,  entrare il più possibile in contatto con la popolazione locale. Quindi attraversiamo ogni mattina, tempo permettendo, il compound alla volta dello Shalom Centre. Schiviamo galline, incontriamo gente, salutiamo bambini, ci concediamo qualche chiacchiera e ci godiamo la semplicità del momento. Questa è L’Africa. Il villaggio che si sveglia e il tempo scandito dalla quotidianità dei gesti di queste persone.

All’imbrunire gli uomini si ritrovano al bar a bere, tendenzialmente superalcolici, e le donne fuori dalle case preparano la cena in casseruole fumanti. I bambini sono in giro, come sempre, soli o liberi, dipende dai punti di vista, aspettano il nostro passaggio entusiasti.

L’imbarazzo iniziale suscitato dal richiamo insistente dei bambini che cercano di attirare la nostra attenzione, chiamandoci  in lingua locale “muzungu”, diventa un interessante spunto di riflessione sulla considerazione che la popolazione locale ha degli europei che si impegnano, a vario titolo, nel loro Paese.  “Uomo bianco” non ha senza dubbio un’accezione negativa, ma sicuramente richiama alla “differenza”, che noi, in un certo senso, vorremmo dimenticare. Non c’è bianco e non c’è nero. C’è l’Uomo … No?

Le nostre giornate sono scandite da momenti di impegno professionale e da quelli conviviali e di ricca condivisione.  Ci si trova spesso con altri espatriati, ci si confronta, si ragiona, si riflette sul senso del lavoro che si sta facendo.

Poi ci sono quelle serate straordinariamente preziose durante le quali, privati di acqua e luce, non resta che godersi le pagine di un libro, giocare a carte, chiacchierare in veranda a lume di candela. Non c’è tempo per lamentarsi o pensare alle comodità di cui non si può godere, non c’è nemmeno la voglia di farlo.

Ho cercato di memorizzare ogni singolo dettaglio dell’esperienza vissuta: i momenti difficili, quelli felici, i disagi e l’entusiasmo, le storie e le facce delle persone incontrate ogni giorno, le privazioni e il senso di libertà , la semplicità dei gesti e dei sorrisi, la pioggia.

E’ per me una sfida rivivere tramite queste righe i miei mesi zambiani … La verità è che non ne sono capace. Ogni ricordo speciale che tento di trascrivere a parole sembra come perdere di senso, del suo profondo significato.  Mi sembra di ridurre tutto a qualcosa lontano da quello che è stato in realtà.

Quando sono partita per tornare in Italia, dopo due mesi, ho desiderato fino all’ultimo farlo in silenzio, quasi andarmene di nascosto. Sì perché immaginate di dedicare parte della vostra vita a qualcosa di così grande, importante, nel quale credete fortemente; immaginate di affezionarvi ad una casa, alle persone, alle strade che tutti i giorni percorrete, affezionarvi alla sensazione appagante di star facendo del bene agli altri oltre che a voi stessi …

Non potevo lasciare tutto pensando che mai più l’avrei rivisto.

Ecco perché sono partita in silenzio, senza voltarmi … Ho guardato la mia Africa dal finestrino dell’aereo, allontanarsi e sparire dietro le nuvole … E l’ho sentita entrarmi dentro, nel profondo.

“I never knew of a morning in Africa

when I woke up in the morning that I was not happy”.

                                                  Hernest Hamingway

Valentina Pignatello (volontaria in Zambia)

 

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