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Agosto 2006 Rossana

LA MIA SOWETO – Testimonianza di Rossana tornata da Soweto in Kenya

E’ entrando in una chiesa, in Italia, che ho realizzato la mia breve esperienza a Soweto, una delle tante baraccopoli di Nairobi, Kenya, dove ho trascorso tre settimane come volontaria tramite l’associazione “l’AFRICA CHIAMA” di Fano.

Sono appena tornata, ho finalmente fatto quella doccia tanto desiderata che ha spazzato via, insieme alla sporcizia, anche le brutture della miseria, la desolazione, il dolore, la pena che mi hanno accompagnato. Ho indossato quel paio di pantaloni nuovi comprati per chissà quale occasione, quella maglietta che profuma di bucato appena fatto ed il pensiero è volato a chi, tanti, troppi, soltanto ieri vedevo indossare gli stessi vestiti di sempre, sporchi, laceri; a chi una doccia non se la fa mai perché non può permettersi di consumare più acqua di quella che si può bere; a chi deve sempre lottare, in un silenzio dignitoso, per giungere al termine di ogni singola giornata soltanto perché ha avuto la sfiga di non nascere altrove; a tutti loro che non sanno quanto diversa può essere la vita in questo altrove e che al mondo c’è anche chi ha la fortuna sfacciata di poter scegliere quale vivere, basta prendere un aereo.

Sono sola in chiesa. Intorno a me gente in silenzio, composta, quasi fredda direi, forse distratta.

Non più lo sguardo candido e curioso di un bimbo che ti chiede: “MUZUNGU (bianco), CHE CI FAI TU QUI?”. Non più il suo sorriso grande, bianchissimo che ti dice: “SONO CONTENTO CHE CI SEI”. Non più la sua mano esile che ti stringe forte e non ti molla per tutto il tempo, che conclude “ADESSO NON MI SCAPPI!”.

Ed il cuore piange lacrime amare quando scopri che non hai sognato.

E’ strano, ti bombardi di vaccinazioni contro ogni sorta di malattie, ti fai dieci ore di volo e ti ritrovi catapultata in un altro mondo, a vivere una vita che non ti appartiene, per la quale non sei stata vaccinata e ti soffoca tanto da desiderare di scappare via ma poi scopri che c’è qualcos’altro che ti lega per sempre a certi luoghi, a certe persone. Ed è strano come poi la memoria rielabori i ricordi che hai, limandoli là dove sono un po’ più cupi e tristi.

Non c’è niente di bello nello scoprire che lì chiamano casa una baracca di lamiera e fango, di tre metri per quattro, se si è fortunati, tanto buia, e ci vivono in cinque-sei persone, quando non di più, a volte senza neanche un letto, sempre senza luce né acqua, senza un bagno, quello è là fuori come una fogna a cielo aperto; ed una “baraccopoli” non è altro che un cumulo disordinato di queste baracche che degradano all’infinito come un’enorme macchia rossa di ruggine in un paesaggio che riesce in ogni modo ad essere verde, e che diventano fornaci quando il sole picchia alto e si paga anche l’affitto per viverci.

Non c’è niente di bello nel camminare per quegli stretti corridoi di terra tra una baracca e l’altra cercando di non tagliarti la testa con le lamiere e di non mettere i piedi in quel rigagnolo d’acqua scura e putrida che ti accompagna ovunque come una scia solcando il terreno. Non osi pensare al fango in cui puoi annegare quando piove.

Non c’è niente di bello quando il vento ti fa arrivare, oltre ad una manciata di terra che ti fa diventare un po’ rossa e più africana, quel terribile olezzo di carne andata a male da una fabbrica troppo vicina e pensi di non poter più resistere e ti accorgi che non hai scampo perché l’aria che respiri normalmente e ti attanaglia i polmoni è comunque sempre viziata dall’aleggiare di sottili veli di smog da scarico di troppe auto ed automezzi affogati in un traffico assurdo, eppure lì l’auto non la possiedono mica tutti.

Non c’è niente di bello nel condividere il cielo con enormi uccelli neri che si contendono con le persone, come avvoltoi, i rifiuti in una discarica anch’essa troppo vicina.

Non c’è niente di bello nell’incontrare lo sguardo ed il malumore di un ubriaco in pieno giorno, donna o uomo non importa, che ti vomita paroloni incomprensibili in faccia.

Non c’è niente di bello quando ai primi bagliori di un’alba grigia o all’incedere del rosso fiammante di un tramonto, vedi una lunga fila di persone ai lati delle strade che percorrono chilometri alla ricerca di un lavoro, oppure tornano, delusi, perché quel lavoro non l’hanno trovato; la stessa fila mesta e silenziosa che poi ritrovi anche ai dispensari per i controlli medici, ad una fermata aspettando quel matatu (piccolo bus) che riuscirà a portarti dove vuoi ad un orario decente senza tante sorprese e… per fare qualsiasi altra cosa ti venga in mente.

Non c’è niente di bello nel precipitare del giorno in una notte che non hai mai visto così buia, rischiarata soltanto da qualche fievole bagliore di candele accese qua e là e che ti alimenta una cupa sensazione di pericolo e di violenza tipici di una realtà di degrado. E non c’è polizia che ti tuteli.

Non c’è niente di bello nel sapere che più della metà delle persone che incontri, che conosci, che tocchi, bambini anche, purtroppo, sia sieropositiva o comunque malata perché qualcuno ha dimenticato di dire loro di stare attenti.

Non c’è niente di bello nel vedere che la sofferenza di vivere in uno slum, come se questo non bastasse, non risparmia il dolore di crescere un bambino nato disabile ed al diavolo ogni possibile discorso sulle barriere architettoniche.

Non c’è niente di bello nel vedere bambini che hanno fame aggrappati alla staccionata intorno al cortile dove gli altri in fila ricevono un pasto perché loro non hanno i cinque scellini per pagarselo.

Tutto questo poco distante dai palazzoni moderni e ville strepitose della Nairobi benestante che non vede e non sente o semplicemente si permette il lusso di ignorare.

E Soweto, mi dicono, sia una delle più piccole baraccopoli di Nairobi, circa 8.000 abitanti.

Più avanti c’è Korogocho, 100.000 abitanti, un colpo al cuore.

Kibera, la più grande, 800.000 abitanti, come una Soweto moltiplicata per cento, non riuscirei a vederla adesso.

E’ un inferno che si aggrava di fronte all’impotenza e all’ingiustizia e ti senti male, vuoi fuggire perché non lo sopporti ma te lo porti dietro ovunque vai perché alla fine scopri che anche lì c’è Dio.

Non puoi più dimenticare che in una di quelle baracche adesso una mamma culla un bimbo di appena due giorni e ti sorride orgogliosa, ti chiede una foto che forse non avrà mai e ti dimostra che anche lì c’è il miracolo della vita e non importa la realtà verso la quale quella stessa vita si sia affacciata. E in un’altra un po’ più là c’è una dolce ragazza, più giovane di te, sieropositiva e malata di tumore, tanto per arricchire la dose, che accompagna i suoi pomeriggi ed i tuoi leggendo passi di quella Bibbia che ti sei portata dietro fin laggiù ma che non riesci a leggere perché quello che vedi e vivi ti pesa troppo e la forza e la voglia di farlo non l’hai più.

Non puoi dimenticare che nella stessa baracca dove vivi tu c’è una bimba che sua madre non è in grado di accudire, anche lei sieropositiva, di soli sei anni, bella, furba, birichina che con la sua furia di vivere ti fa scordare quel triste pensiero che ti assale ogni volta che incroci i suoi occhioni sgranati, ogni volta che la guardi dormire come un angelo indifeso al tiepido lume di candela in un letto troppo grande per lei così piccina, ogni volta che la vedi prendere, da brava, tutte quelle medicine che, se non sconfiggeranno la malattia, uccideranno lei prima ancora che diventi grande.

Non puoi dimenticare tutti gli altri bimbi di Soweto e sono tantissimi, magrissimi, sporchissimi, coloratissimi, bellissimi che ti hanno dato il benvenuto con una scarica di “HOW ARE YOU?” e “WHAT IS YOUR NAME?” ripetuti all’infinito come in un disco rotto e che ogni giorno aspettano fuori della porta che tu esca per accompagnarti chissà dove e di quelli che incontri lungo la strada che hanno imparato a riconoscerti, cielo se hanno imparato, gridano il tuo nome a tutti polmoni, bello, scandito, perfetto e ti chiamano come nessuno ti ha mai chiamato prima, ti donano il sorriso, il bene più grande che hanno, che ti scalda il cuore come non è mai successo prima e ti saltano al collo in un abbraccio che è il più caloroso che tu abbia mai ricevuto. Perché nessuno ha mai detto loro di non dare confidenza e di non prendere caramelle dagli sconosciuti. E te li porteresti via tutti per dare loro il meglio ma non sai se poi il meglio lo stanno regalando proprio loro a te, perché in sole tre settimane hai appreso sull’amore gratuito molto più di quello che è stato possibile negli anni della tua vita che non sono pochi.

Non puoi dimenticare che lì quei bambini ancora sgranano gli occhi dalla meraviglia e gioia se si vedono regalare biscotti o caramelle e perdoni qualche piccola insolenza e prepotenza di fronte all’altruismo di chi riceve e non dimentica che ha dei fratelli e chiede anche per loro ed in mancanza divide o cede quel che ha avuto per se.

Non puoi dimenticare di quanto puoi farli felici se li lasci colorare un pezzo di carta e fai per loro una barchetta pure di carta o lasci che ti accarezzino e ti abbraccino perché gli sei simpatica eppure neanche ti conoscono e facciano treccine con i tuoi capelli così diventi “smart” (bella) come la loro mamma. E le loro mamme te le vogliono fare conoscere a tutti i costi, così come ti mostrano orgogliosi la loro casa di lamiera, la stessa dove poi queste donne ti accolgono con un caloroso benvenuto, “KARIBU”, e ti fanno accomodare anche se non c’è spazio ma non importa, tanto ci si stringe. Sono favolose queste donne che si spaccano in quattro per questi figli quasi sempre senza l’aiuto di un padre. E che lezione di vita quando salutando chiedi loro come stanno, “ABARI”, e sorridendo ti rispondono “MUSURI”, bene…e ti chiedi come sia possibile.

Non puoi dimenticare che lì ci si diverte con dei tappi di bottiglie, con un cerchio e tanto filo di ferro intrecciato fino a farne diventare colorate automobiline che tu non hai mai visto prima, e pensi ai figli di qua che si annoiano con il giocattolo più costoso; che lì una bambola soltanto, venuta da chissà dove, fa il giro delle baracche per essere cullata dietro la schiena di una bambina che non è mai la stessa. Queste piccole grandi donne, che giocano a fare le mamme ma alcune volte lo sono per davvero.

Non puoi dimenticare che lì preferiscono tutti la scuola alle vacanze perché fintanto che sono là, restano lontani dalla polvere e dal fango della strada dove vagabondano aspettando che arrivi ancora un’altra sera. E non c’è cellulare che possa dire ad una mamma fin dove si può arrivare.

Non puoi dimenticare che dietro la divisa blu da carcerato ci sono dei ragazzi, giovani, anche troppo, che la società definisce “street children” e sulla strada li vedi si, tanti, troppi, che rubano, che rovistano tra le immondizie, che sniffano colla dietro un angolo neanche tanto nascosto e che ti accerchiano per chiederti elemosina o per derubarti, chi lo sa, e ti fanno anche un po’ paura. Ma poi realizzi che sono quegli stessi bimbi che una volta correvano felici incontro ad un “muzungu” e che, adesso che sono un po’ cresciuti, sulla strada ci stanno perché non hanno altra scelta, perché non c’è nessuno che si occupi di loro, perché non ci sono i soldi per mangiare figuriamoci per studiare ed un lavoro nessuno te lo può dare. I loro sogni sono gli stessi di quelli più fortunati che street children non saranno mai e non dovranno mai preoccuparsi di come aggiungere un giorno nuovo alla loro esistenza. E rivelano tutta la fragilità di ragazzini desiderosi d’affetto che hanno smesso di giocare troppo presto e che tornerebbero a casa dalle loro mamme se solo potessero.

Non puoi dimenticare quella musica che accompagna grandi e piccini nelle loro e nelle tue giornate da quando ti svegli a quando ti addormenti; che sia quella di una chitarra, di un bongo o di una radio non importa, perché la musica è tutto, è nel sangue e rende più bello, più sopportabile ciò che ti circonda.

Non puoi dimenticare che, quando la noia ti assale e pensi che il non fare niente ti possa uccidere, il lento e rassegnato susseguirsi delle loro giornate t’insegna che forse sei tu che stai andando troppo in fretta. POLE, POLE, piano, piano…

Non puoi dimenticare che lì si va a messa con lo slancio che noi qui abbiamo dimenticato e si partecipa tutti, anche chi del kiswahili o kikuyu non conosce una parola, con il cuore, con le mani, con il corpo perché si danza, si parla, si prega, si suona, si canta in un coro d’alleluia per rendere grazie a Dio del NIENTE, seduti tutti insieme, loro tanti, poveri e sereni, noi pochi, insoddisfatti e oberati dal tutto.

Non puoi dimenticare quando un anziano, uno dei pochi che incontri perché lì si muore prima, ti stringe la mano forte e ti guarda negli occhi regalandoti tutta la sua esperienza di una lunga vita di stenti trascorsa in uno slum.

Non puoi dimenticare che in mezzo ad una realtà così desolante e frustrante c’è un’oasi, BABA YETU (Padre Nostro), una baracca un po’ speciale che ospita persone, ragazzi, giovani volontari che prestano il loro tempo nell’umiltà e nel silenzio di chi sa che non può cambiare le cose, che non lo pretende e sa che non serve poi molto arrabbiarsi e colpevolizzare ma, quando al mattino quella porta si apre e l’ennesima fila di persone si affaccia con le richieste più disparate e disperate, è presente per regalare una carezza, un bicchiere d’acqua, un dolcetto, un paio di scarpe…; per fare una chiacchierata insieme e per comprare la collanina di perline che si è fatta per guadagnare qualche scellino; per medicare una piccola ferita e per accompagnarti ad un ospedale se la cosa si fa seria; per pagare quello che lì quasi nessuno si può permettere; per garantire a qualcuno qualche volta un pasto abbondante e consumarlo insieme; per accudire ad un bimbo quando non lo fa sua madre; per dare rifugio e conforto a quanti il destino ha regalato sofferenza nella sofferenza; per recuperare al percorso di una vita normale chi è inciampato e caduto; per donare speranza con soluzioni concrete a chi non ha mai visto altro che il buio.

Tutto questo nello spirito cristiano della condivisione perché neanche a Soweto ci si deve sentire diversi, soli o abbandonati. E allora comprendi quando Madre Teresa di Calcutta diceva: “Quello che facciamo è soltanto una goccia nell’oceano. Ma se non ci fosse quella goccia all’oceano mancherebbe”.

Non posso raccontare di safari, di animali selvaggi, di savane sterminate e tramonti mozzafiato.

Ho soltanto foto che parlano di miseria di un luogo come Soweto, che pure esiste, e foto di tanti e bellissimi volti di uomini, donne e bambini che ci piace tanto chiamare “ultimi”, ma che adesso hanno un nome ed emergono dalla carta con le loro storie di vita per sempre intrecciate con la mia.

Questa è la mia Africa. Ma va bene così.

Rossana

Soweto, Kenya – Agosto 2006

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