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E si ritorna più ricchi

TESTIMONIANZA DI DAVIDE VOLONTARIO NELLO SLUM DI SOWETO (KENYA) –

Itinerario ideale nello slum

Soweto è considerato il fiore all’occhiello degli slum del Kenya. Con una popolazione di novemila abitanti è la più piccola baraccopoli di questo vastissimo paese. Le strade sono larghe non più di due metri e sono fatte di terra argillosa. Questo significa che con le piogge la terra diventa una lingua di sabbie mobili che ti fanno sprofondare fino al ginocchio, e se non hai la fortuna di poterti comprare delle scarpe rischi che ti si infili sotto le unghie dei piedi un verme detto giga che porta un’infezione dolorosissima e difficile da curare. Partendo dal new building (la struttura di due piani costruita dall’africa chiama dal progetto rainbow e dalla papa giovanni ventitreesimo per accogliere ragazzi di strada) si costeggia un lago artificiale dove confluiscono le feci dei fortunati abitanti che hanno un bagno in casa e l’acqua per lo scarico, gli scarti chimici della vicina “choice farm”, ovvero una enorme macelleria che produce carne di maiale, e, di tanto in tanto si può vedere affiorare il cadavere di qualche ubriaco caduto lì per caso o vittima di una aggressione.

Procedendo a passo svelto cercando di scappare dall’olezzo di questa fogna si affronta la salita detta “via delle merde“, dove una sterpaglia concede pudore ai momenti più intimi degli abitanti che non possono permettersi il bagno in casa. Subito arrivati sulla spianata si entra nella Soweto vera e propria. Una distesa di compound di lamiera zincata tenuti su da legni fradici. Quando l’estate africana colpisce con tutta la sua violenza le lamiere rimangono incandescenti fino a sera quando la frescura rinfranca un po’ gli animi, giusto il tempo di vedere la prima zanzara che vola, avvisaglia dell’imminente arrivo di altre migliaia di piccole bastarde portatrici di un male che qui falcia persone come spighe di grano…la malaria. Non avendo la corrente l’unica alternativa è infilarsi nel letto, sistemare la zanzariera e scaldarsi nel caldo dell’alcova.

Ma Soweto è anche altro, capita di affacciarsi dentro una casa e vedere la famiglia stretta intorno al tavolo, seduta perterra, in una sorta di rito primordiale, in cui si riuniscono le speranze, le esperienze, le forze, e si ringrazia dio per il cibo che anche quella sera riempirà gli stomaci umili di chi non rinuncia alla dignita, di chi decora ancora la propria casa, di chi appende il crocifisso al muro, di chi mette fiori nelle bottigliette di cocacola, di chi pulisce il pavimento e lava i piatti dopo mangiato, di chi se ti vede curiosare da fuori, ti chiede di entrare a dividere in allegria il poco che ha. E allora ti senti un po’ meno msungu e un po’ più rafiki (amico). Proseguendo il percorso tra budelli infestati di bambini zozzi puzzolenti sdentati malati e felici. Dopo poco tutti ti conoscono e ti salutano, chi per cortesia o simpatia, chi spinto dalla logica secondo cui l’uomo bianco è come un limone da spremere il più possibile, seguendo la legge della baraccopoli, logica conseguenza di quella della giungla. Ai margini di Soweto si trova il campo da calcio. La Shamba, dove si gioca in un numero indefinito di persone, senza regole se non quella del più forte, se vuoi giocare con loro e avere rispetto devi stare alle loro regole…botte da orbi, piedi nudi, lanci lunghi e pedalare. Tornando verso l’interno si passa il negozio di Pembheny che con la sua bicicletta, la bottega e due baracche di proprietà è il capitalista della situazione. Passando sulla destra si costeggia una casa di carbonai, che sembra proprio come quelle del marchese del grillo, solo che dentro ci sono persone nere, più del carbone che vendono. Subito dopo il protocollo del galant-msungo prevede un saluto cordiale a mamachips, una signorona che frigge e vende patatine tutto il giorno, in pentole enormi dove frigge un grasso vegetale detto mafuta, pesantissimo, ma ottimo in un mondo in cui mangiare è una condizione necessaria, raramente un piacere.

Più ci si addentra nelle budella di questo slum, più la gente ti sorride e ti riconosce, perché sa che stai andando a Baba Yetu,letteralmente padre nostro. In questo compound vivono Enrica, Moses, Adriano, Giancarlo, Giampaolo, Francesca, Diletta, Mino, Vayolett.

In questo compound ho vissuto anche io,e mi auguro che tanti altri ci vivranno,prendendo il mio posto,quello di enri di adri di gianca e di tutti gli altri. Baba Yetu è un sogno,tenuto in piedi da persone che decidono di dare il loro contributo,decidono di far girare la ruota che li ha fatti nascere fortunati,rimettendo in circolo quello che hanno avuto dalla vita.

Baba Yetu è un non-luogo, dove chi ha bisogno d’aiuto,e vuole farsi aiutare,meritandolo,trova l’aiuto possibile,il conforto necessario. Baba Yetu è un concetto, l’aiuto che non è invasione, la critica che non è polemica,gli sconosciuti che diventano amici, le idee che diventano sudore,e mani aperte che accolgono altre mani. Baba Yetu è un pezzo di ognuno di noi,che ha avuto il piacere e l’onore di passarci….di viverci!

Tornando a casa ho avuto la conferma di quanto pensavo prima di partire:

si torna a casa più ricchi,e ci si rende conto di aver ricevuto dall’africa, più di quanto gli si sia potuto dare!

E ti ritrovi ogni tanto,sovrapensiero,a gironzolare ancora nei ricordi, lungo i budelli di Soweto!

Davide Corsetti – Nairobi, Agosto 2009

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