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Lo Shalom Centre: un occhio aperto su centinaia di vite taciute nel silenzio

TESTIMONIANZA DI GIORGIA VOLONTARIA A LUSAKA (ZAMBIA) –

Giro per le strade della mia città con la sensazione di mettere un piede a nord e l’altro a sud, uno nel mondo ricco e individualista l’altro nel mondo povero e altruista, uno calpesta marciapiedi di cemento curati a rigore del gusto estetico, l’altro si impasta con la sabbia che copre le pietre di un suolo impossibile. Cammino per le strade stropicciando gli occhi, allineando i passi, mettendo in fila i ricordi. I pensieri gironzolano per conto loro. Percorrono i vicoli di Kanyama fatti di baracche di sabbia e cemento, di bambini che corrono e giocano e ridono come se ognuno fosse il più perfetto dei giorni, di uomini che barcollano ubriachi di birra e disperazione, di donne che lavorano con la schiena china e il volto segnato dalla fatica, di rigoli di acqua putrida che scorre dalle latrine, di occhi e mani che ti cercano per una carezza, di voci squillanti che vincono il brusio della miseria.

Sono tornata già da qualche settimana ma ancora mi ritrovo a passeggiare nelle strade dimesse del compound, a zompettare nella macchina per l’urto delle buche, a rivivere nei ricordi quel luogo, quella gente, quel pezzo di terra così strano nel suo essere speciale.

Sono tornata dallo Zambia, da Lusaka, da Kanyama. Da uno di quei posti in cui lo sguardo del mondo che conta non arriva e allora ci si inventa come sopravvivere.

C’è chi spacca le pietre magari nel doposcuola o anche tutto il giorno se un’istruzione non può permettersela. Così ti volti a guardare quei corpi da bambini con muscoli da adulti chiedendoti fino a quale latitudine abbia davvero senso parlare di diritti.

C’è chi si sveglia presto molto presto, prima che il sole sorga. Frigge frittelle, le prepara, carica sulle spalle il più piccolo dei figli e si incammina nel buio della baraccopoli per raggiungere la città con un ingombrante cesto sulla testa ed in tasca la speranza di tornare a casa con il poco da mettere nel piatto.

C’è chi invece è talmente stanco di sopravvivere che lo fa procurandosi una sensazione di effimera felicità. Lo riconosci dal recipiente che stringe in mano, dall’andatura storta, dallo sguardo assente. Beve per non pensare, beve forse per sentirsi migliore, beve per non accusare la fame. Torna dalla famiglia, butta le responsabilità fuori dalla porta e alza le mani su moglie e figli finché l’eccitazione alcolica non svanisce.

C’è chi combatte con coraggio la sua quotidiana sfida contro la diffidenza. Chi difende la propria diversità dimostrando a quelli che non credono di avere una forza che loro non hanno. Sono i disabili. Vittime dell’ignoranza prima ancora che dei propri mali. I meno fortunati sono non-figli, rinnegati, abbandonati, buttati in un angolo buio dello stanzone, immobili spesso per ore..e se la sfortuna è proprio nera più nera del nero della loro pelle sono non-figli rinchiusi in gabbia, senza metafora alcuna. Sì avete capito bene. Chiusi in recinti dietro la baracca, lontani dall’occhio del vicino che potrebbe deridere lo storpio di casa. I più fortunati vengono invece accettati e magari anche amati. Sono figli di chi ha il coraggio di chiedere aiuto e di chi vede in loro un futuro non meno felice degli altri. I fortunati tra i fortunati vanno addirittura a scuola, fanno fisioterapia, ricevono da mangiare. Nei loro visi, nelle loro gambe, nelle loro braccia, nelle loro mani ho visto una forza speciale, ho visto una voglia di vivere che ha tanto da insegnare e che scioglie ogni dubbio:ce la faranno.

C’è chi difende la propria dignità. Lo fa sfoggiando il vestito della domenica, il migliore, il più pulito, quello di cui sentirsi orgogliosi. Lo fa indossando un paio di scarpe dalla suola bucata..e non importa se entra la terra, entra lo sporco o entra il freddo perché la sensazione è quella di non sentirsi scalzi e anche un po’ meno poveri. Lo fa mettendo le tendine alla porta sgangherata della propria baracca per dare un senso di casa anche laddove sembrerebbe una follia.

Ci sono i bambini..c’è la loro vivacità, i loro sorrisi, i loro occhioni neri illuminati da una luce speciale. Loro non sanno cosa fa il mondo, non sanno chi comanda e chi subisce, non conoscono i giochi di potere che generano ignoranza, fame, povertà. Loro corrono scalzi sui sassi, coperti di pochi sudici stracci. Le magliette sono logore, i pantaloncini servono a malapena a coprire le nudità…da ogni buchetto entra il vento gelido dell’inverno africano e li senti tremare quando vengono a cercare riparo e calore tra le tue braccia.

Loro gridano il tuo nome, se lo ricordano dal primo giorno e non lo dimenticano fino alla tua partenza quando arriva un altro mzungu che parteciperà ai loro giochi con la stessa emozione che hai provato te. Loro cercano la tua mano, ti chiamano da lontano, vogliono accarezzare la tua pelle incuriositi dal suo pallido colore. Loro ti offrono anche quel che non hanno, vogliono dividere con te il pranzo e non importa se è l’unico pasto della giornata. Camminano con le zappette in mano, ti chiedi cosa stiano facendo e la tua testa, così lontana da quelle realtà, non riesce a darsi risposta. Poi li vedi che ti corrono incontro, saltellanti, contenti e tirano fuori dalla tasca i topolini che hanno cacciato offrendotene uno. Così capisci che era uno dei giochi della sopravvivenza e nonostante l’odore di marcio che ti suggerirebbe di scappare via rifiuti ringraziandoli con un grande abbraccio per aver ricevuto un’altra lezione di vita. Loro non si lamentano, ti sussurrano “I’m hungry” ma poi continuano a giocare e a cantare e a saltare distraendosi dalla fame. Loro sono così…speciali nella voglia di vivere che contagia, sorridenti nella miseria, felici di quel poco, coraggiosi come dovrebbero esserlo solo i grandi. Loro sono la speranza, sono il futuro, sono il mal d’Africa. Sono più di quello che le mie parole riescono a descrivere, molto di più. Le impronte delle manine sporche sulle mie maglie sono qualcosa che ancora cerco e che trovo non più nella stoffa ma dentro di me.

A Kanyama si vive come si può. Ci sono quindi uomini e donne che faticano, che lavorano, che sudano o anche solo che bevono, che rubano, che usano violenza. Ci sono bambini che spaccano pietre, che vanno a scuola, che non ci vanno, che sorridono, che mangiano, che non mangiano. Ci sono ragazzi diversamente abili che ce la faranno e altri che rimarranno nascosti al mondo. Per alcuni si parla di un domani, altri non sanno neanche cosa sia. E poi c’è un piccolo terreno, con dentro una piccola costruzione in cui vivono delle grandi persone. Il loro colore è molto diverso da quello della gente che quei posti li ha abitati da sempre, ma il cuore è lo stesso ovunque si nasce. Si chiamano Simona, Antonella, Sydney e Bright. Gli ultimi due in realtà hanno respirato sin dai primi anni aria africana ma nel loro caso la fortuna ha girato nel verso giusto permettendogli una vita migliore ed un futuro degno di questo nome…così decidono di rimettere sul piatto la buona sorte per spartirla con chi, fuori dal cancello, la aspetta ancora con il naso per aria. Simo e Anto invece sono le mzungu, le occidentali, le intruse…che in punta di piedi tendono una mano a chi bussa alla porta della piccola casa, nel piccolo terreno, entrando a fare parte di una storia iniziata da non molto con il nome di Shalom Center. Lo Shalom Center è un’oasi di pace nel delirio del compound. E’ un punto d’ascolto, è una certezza che resiste anche nelle difficoltà che ogni giorno si affacciano senza preavviso. E quando non si hanno parole per dare sollievo, quando non sai parlare di fame perché non l’hai mai provata, quando non immagini come si può vivere in una stanza stretta e buia, quando non ti spieghi come possano bambini tanto piccoli cacciare e mangiare topi allora basta una stretta di mano, un abbraccio, una carezza per far capire che ci sei. Gliel’ho visto fare ogni giorno e gli occhi che hanno ricevuto quel gesto si sono accesi di speranza, il loro sguardo è sembrato meno solo. Lo Shalom Center è una possibilità che si mette nelle mani di chi non è abituato ad averne, è la fatica di chi tenta di farlo reggere in piedi, è un occhio aperto su centinaia di vite taciute nel silenzio. E’ una storia che incontra altre storie della quale ho fatto parte anche io e come me in tanti prenderanno ognuno il posto dell’altro. Ce ne siamo andati lasciando quelle quattro grandi persone a fare i conti con milioni di problemi ma con la sicurezza che sapranno affrontarli e casomai risolverli. Ce ne siamo andati con un forte senso di malinconia che accompagna ogni istante, ogni gesto. Ce ne siamo andati portandoci dentro il più ricco dei tesori.

Quando penso a Kanyama mi capita di ricordare i momenti in cui i bambini correvano dietro la macchina, appena ci vedevano arrivare prendevano fiato, un sospiro per partire e poi via in una corsa sfrenata per decine di metri senza mai fermarsi..una gamba dietro l’altra, il sorriso sulle labbra, la voglia di raggiungerci. Dietro di loro il tramonto era bellissimo quasi a rendere quel posto migliore, come se fosse stato sospeso tra sogno e realtà, come se fosse stato lontano da tutti i mali. Mi piace ricordarli così e immaginarli correre allo stesso modo verso il loro futuro con la libertà di poter scegliere e di poter sognare, con la stessa corsa affannata e veloce….mi piace pensare che diventi un loro diritto e non più solo una mia speranza.
Giorgia Prati – Kanyama (24Luglio – 25Agosto 2008)

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