Alice racconta la sua recente esperienza come volontaria de L’Africa Chiama nella baraccopoli di Soweto in Kenya.
Si chiama Soweto. Un cunicolo di piccole strade sterrate in periferia. Uno slum di edifici ammassati uno sull’altro, dove la povertà non è altro che un requisito di vita, condizione caratterizzante per chi vive lì. Come se fosse normale. Come se fosse giusto.
La prima volta che ho camminato per quelle vie non vedevo esattamente dove mettevo i piedi, mi trascinavo avanti con la mente, cercavo di capire.
Caldo soffocante, martellante, che entra nella pelle, a ridosso delle ossa.
Odore forte, di rifiuti e spazzatura sparsa in terra. L’odore di una vita difficile, quella di chi non sogna una condizione migliore, perché questa vita questo ha dato loro. Come se fosse normale. Come se fosse giusto.
Terra arancione, rossa, piena di sassi e pietre. Cielo al tramonto sull’asfalto.
E poi le baracche, dove il popolo vive. Sono tetti in lamiera per un metro quadrato di stanza, se si può chiamare tale. Un materasso per appoggiarsi la notte, due pentole, una tanica d’acqua attinta da un distributore pubblico. Il necessario per sopravvivere. E a volte neanche questo basta.
A qualche chilometro Nairobi, le strade asfaltate, una città come un’altra, con i suoi grattaceli, i suoi uomini ricchi in giacca e cravatta, uomini che hanno una vita rispettabile, comune. Come la mia.
Non dimenticherò mai quei bambini, vestiti di stracci, senza scarpe ai piedi, prendermi la mano mentre cammino per Soweto. Mentre mi chiedo che diritto ho io di essere felice. Si sono aggrappati a me sorridendo, non chiedevano niente, solo di stare al mio fianco mentre passeggiavo, io, estranea, tra le loro case. Ricordo di averli guardati negli occhi per avere la risposta che cercavo. Forse loro sapevano perché ero lì. E non ci capivamo parlando la stessa lingua. In quel momento è bastato guardarsi. A volte basta semplicemente guardarsi senza fare niente.
Sembravano dirmi “Non è colpa tua”. Non è colpa mia. “Ma non dimenticarci.” Come potrei mai dimenticarvi?
Ritrovo una frase nel libro che preferisco, ora che sono tornata alla mia vita, alla mia routine. La leggo spesso, ogni volta che ne ho bisogno, tutte le volte che mi va di farlo.
“Ci sono cose. Piccole cose che non dimenticherò, che sono niente e invece restano più forti di tutto.”
Sono queste le cose che ricorderò. Le piccole cose che questa vita mi ha permesso di portare nel cuore.
I saluti di chi non conosci. “Habari” “Musuri”. “Come stai?” “Bene”.
“Bene.”
I sorrisi autentici, di prima mattina, il sole appena sorto negli occhi.
E quello che bastava era giocare insieme, giochi improvvisati, regole inventate al momento. Battere un cinque, tirare un pallone. Questo bastava. E la vita è bella. Siamo fortunati.
Condividere un pranzo comune. Riso, fagioli, verdure. Chapati e carne. Oggi possiamo mangiare insieme, ancora. E la vita è bella. Siamo fortunati.
Mani che lavorano, si impegnano, costruiscono qualcosa per te. Mani che cercano la tua attenzione, che dicono tutto senza dire niente.
I ragazzi di strada che si aggrappano alla droga, che non sanno cosa sia avere di più. Proprio a causa delle difficoltà che affrontano nella vita di strada, non hanno da mangiare e la colla che inalano (la droga dei poveri) “semplicemente” li stordisce al punto da non fargli sentire la fame.
Ma la vita è bella. Siamo fortunati. E ogni giorno persone meravigliose si impegnano per costruire loro un futuro migliore. Camminano con loro, nelle loro strade, visitando le loro case, parlando la loro lingua. Sono lì per loro, come esseri umani, come uomini e donne che vogliono cambiare le cose. Come chi ha scelto di esserci.
Perché i bambini sono tutto quello che abbiamo, sono il nostro futuro. In ogni parte di questo pianeta, in ogni casa, in ogni strada, in ogni momento della giornata, sempre.
E la vita è bella. Siamo fortunati.
“Kwaheri, it’s a promise. Ci vediamo.”
Ci vediamo bambini. Ci vediamo.
Alice Baldelli volontaria in Africa (marzo 2017), servizio civile Italia (2015/2016)
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